
Ogni giorno un fundraiser si sveglia e sa che dovrà impegnarsi moltissimo per raccontare al meglio l’organizzazione per cui lavora. Dovrà capire su quali elementi fare leva, quali tinte usare nella narrazione e quali parole.
È una sfida, perché sono sempre di più le organizzazioni che si comunicano e bisogna trovare un modo per farsi sentire. Fare la voce grossa non è una soluzione. Aggiornare i social come se fossimo impazziti, nemmeno.
Okay. Non sto per metterla sulla trasparenza.
Mettiamola sull’autenticità
Come fundraiser e persone che comunicano il sociale abbiamo un dovere morale: educare i cittadini.
Fornire loro informazioni autentiche e vere su quello che facciamo. Raccontare quindi, senza retorica, quello che le nostre organizzazioni fanno è quanto c’è di più performante in qualsiasi tentativo di comunicazione.
Essere autentici significa restituire concretamente le realtà per cui lavoriamo, i progetti, pregi e dolori. Sì, anche le difficoltà sono un modo per dire che non siamo supereroi, perché nessuno lo è! Narrare un sociale fatto di cuoricini, unicorni ed elfi, non fa bene a nessuno. Anzi.
Qualche giorno fa leggevo un articolo di Selvaggia Lucarelli su Domani. Ammetto di non essere sempre in linea con i suoi pensieri, ma mi ha fatto riflettere molto. Lucarelli racconta della influencer Disperatamente mamma e del chiacchiericcio che si è generato intorno a quanto la stessa racconta sui social. Non voglio spezzare lance a favore di nessuno, ma è interessante vedere i retroscena di questi profili che ci sembrano perfettamente perfetti sotto ogni aspetto. Non ti fa pensare?
La vita reale…
Vabbè, Fra, ora non partire con la filippica “La vita reale non è quella sui social”.
No, nessuna filippica (per quanto la massima sia ancora valida!). Ma l’esempio che ho inserito qua sopra, racconta proprio il bisogno di essere autentici per essere credibili. Poi ci sarà sempre una percentuale di persone che continueranno a seguirti, ma una fetta di loro se ne andrà indispettito e soprattutto sentendosi tradito, che è la cosa peggiore del mondo, soprattutto se tu sei una non profit.
Anzi, ti dirò di più. Se sei una non profit saprai anche che la gente ha molta, ma molta meno pazienza ed è meno disposta a perdonarti eventuali errori. Perché tu sei “tra i buoni”. E, nella loro ottica, i buoni non possono fare errori. Soprattutto quando quei buoni campano grazie alle donazioni.
Poi ci sono errori imperdonabili che davvero il mondo del terzo settore fa, generando tsunami che toccano più o meno tutti, ma non ne parlerò in questo post.
Quando la narrazione non è solo tua
C’è una cosa che è bene avere ben chiara quando si comunica. La narrazione non è solo tua. È tuo il progetto che metti in piedi per risolvere i bisogni di un particolare target, ma non è tua la narrazione del bisogno. Puoi farla tua e narrarla al meglio, ma ci sono bisogni che spesso finiscono nelle mani degli sciacalli e quindi devi saperti muovere in un terreno che non sempre è amichevole e fecondo.
Ti faccio un esempio.
Parliamo del tema migranti e sbarchi. Tasto dolente, narrazione in mano e sulla bocca di persone con opinioni completamente differenti tra loro, persone che spesso narrano per sentito dire, per partito preso, per questioni personali, per ideologie varie ed eventuali e spesso per mancanza di informazioni vere.
E tu, già ti vedo, sei in ufficio che leggi l’ultima sparata di qualche leader politico o l’ultimo decreto del governo e inorridisci di fronte a parole come “carico residuale”. Ma tu hai una visione diversa perché hai a disposizione un lato della medaglia che non tutti vedono o non tutti vogliono vedere o, peggio ancora, in pochi, pochissimi hanno il coraggio di andare a cercare.
Chiamiamole persone
Se ti occupi di migranti lo avrai scritto almeno dieci volte al giorno. Lo so. Ho passato quattro anni a scriverlo e a ricordarlo ai donatori e non solo, ma questo concetto non è facile da far passare.
Non è facile perché, appunto, come dicevo sopra, le narrazioni intorno a questo tema si intrecciano e sono tutte voci che si sovrappongono e ognuno crea la sua narrazione.
Anche chi detiene la responsabilità di informare, nello specifico chi fa giornalismo, spesso si limita a un racconto frontale delle vicende con immagini che restituiscono la dinamica alla stregua di una visita allo zoo. Chiedo scusa per la schiettezza, ma in questi anni di riprese di persone in mare, stipate sulle navi, in coda ai controlli medici, ne abbiamo viste tante. Carrellate di volti che cercano spesso di nascondersi perché quelle non sono riprese. Quella è violenza narrativa.
Tutte le riprese sono fatte con velocità, quasi di corsa. Forse è un tentativo di lasciare la persona nel totale anonimato per rispettarla? No, questa è solo la fretta di chi non va dentro le storie, le notizie, di chi si limita a fare cronaca. Questo non è di aiuto perché alimenta soltanto una narrazione fatta di numeri spesso buttati a caso.
Ogni tanto qualche nome di migrante lo abbiamo conosciuto. E sai quando? Quando è morto.
Se questo è un uomo
Venerdì 11 novembre 2022 però è successa una cosa che mi ha fatto commuovere e anche tanto.
Il protagonista di questa vicenda è Diego Bianchi, conosciuto anche come Zoro, conduttore di Propaganda Live. Bianchi è salito sulla Geo Barents di Medici Senza Frontiere con la sua telecamera e ha restituito un pezzo di giornalismo d’inchiesta con (lo dico edulcorato, ma se ci vediamo dal vivo lo coloro un po’) gli attributi. Lo trovi qui.
Sì, perché Diego Bianchi ha scelto di narrare quello scempio avvenuto nel porto di Catania, ha scelto di scardinare quella narrazione sbagliata dando un nome, un volto, delle storie, delle voci alle persone su quella nave. Lui era là, nel mezzo delle cose.
La mia riflessione
Il servizio di Diego Bianchi mi ha fatto molto riflettere perché è riuscito a fornire un racconto oggettivo ed emozionante restituendo storie vere, di persone, mettendo in luce tutto ciò che viene posto in secondo piano da altre narrazioni che si fermano alla sola superficie della vicenda.

Attraverso le voci di quelle persone, che per altro parlano un inglese migliore di tanti altri Italiani, ha dato loro valore. Era impossibile non emozionarsi di fronte alle loro storie. Persone che raggiungevano l’Europa per curare la figlia con il labbro leporino, papà in cerca di fortuna perché in Siria non ci sono più scuole buone, giovani che cercano di raggiungere la mamma in Germania che è lì per curarsi per un cancro, donne che lamentano di non avere contatti con casa da 10 giorni.
Storie.
Volti.
Persone, appunto.
E ancora
Zoro è riuscito anche a dare voce alla ong Medici Senza Frontiere (MSF), restituendo la professionalità dei suoi operatori, la pazienza, la prontezza e, diciamolo, il coraggio. Sì, perché dopo ore fermi nel porto, quando hanno realizzato che solo una parte delle persone a bordo sarebbe potuta sbarcare, ci vuole coraggio, ci vogliono nervi saldi per comunicarlo e gestire ciò che accade di conseguenza.
Ieri, da fundraiser, ho ammirato davvero tanto il lavoro di Zoro perché credo sia una lezione importante per noi fundraiser che ogni giorno cerchiamo di raccontare ai nostri stakeholder cosa fanno le nostre organizzazioni. Le voci delle persone che aiutiamo funzionano più di tante parole scritte dai nostri presidenti. Non dimentichiamolo.
Un video, anche non fatto con tutta la ricercatezza e le attenzioni tecniche, comunica più di un book fotografico.
Una storia coinvolge più di tante cose dette.
In Boris, gli sceneggiatori, quando vogliono risparmiare sulle riprese di una scena complessa, invece di girarla fanno raccontare il fatto da due personaggi (non lo famo, ‘o dimo).
Meno ‘o dimo nel fundraising.
Facciamo parlare i nostri beneficiari, spostiamoci di lato e lasciamo il campo libero ai veri protagonisti. Solo così potremo essere davvero veicolo di narrazioni corrette, autentiche. Solo in questo modo potremo adempiere al nostro dovere morale di educare e diffondere buone prassi.
E tu cosa ne pensi?